Percorso mostra
L’incontro fra Roma e Pompei inizia a margine della Seconda guerra sannitica, condotta contro le popolazioni italiche abitanti l’area della dorsale appenninica centrale e meridionale. Il lungo conflitto alla fine del IV secolo a.C. sancisce l’egemonia romana sull’Italia centrale, gettando le basi per la futura politica mediterranea della Repubblica.
Nel 310 a.C. i Romani tentano senza successo un’incursione nel territorio della lega nucerina (dal nome della capitale della confederazione, Nocera in Campania), all’interno della quale Pompei gioca il ruolo di sbocco portuale. Due anni dopo la confederazione viene sconfitta e stipula con Roma un trattato di alleanza (foedus), che inserisce stabilmente le comunità sannitiche della valle del Sarno nell’orbita della nuova potenza.
Per il piccolo centro di Pompei inizia così un processo storico di grande portata: la città cresce alla periferia del crescente sistema di Roma, omologandosi progressivamente ai modelli offerti dal centro del potere e dalle sue colonie. A beneficiarne è l’intera società pompeiana e in particolare la sua antica aristocrazia, fedele alleata al fianco dei Romani nelle guerre di conquista, che tra il III e il II secolo a.C. generano un enorme afflusso di risorse verso la Penisola.
La città vesuviana fiorisce come mai prima e celebra la fortunata alleanza decorando i suoi monumenti con gli esempi della propria virtù guerriera, mentre il console Lucio Mummio dedica nell’antico santuario di Apollo una parte degli ingenti bottini prodotti dalla conquista della Grecia (146 a.C.).
Ma il secolare, sottile equilibrio fra la repubblica romana e i suoi alleati si incrina nel giro di un paio di generazioni. Nel 90 a.C. anche Pompei è coinvolta nella Guerra sociale, la sanguinosa guerra fra Roma e i suoi partner italici (socii), che segnerà il tramonto della fase dell’alleanza.
Mercatura – Il commercio
La fase dell’alleanza e della formazione del dominio mediterraneo di Roma rappresenta una svolta epocale nel sistema di scambi del mondo antico.
Grazie al suo porto, Pompei è coinvolta nella progressiva crescita di una rete commerciale sempre più legata alla navigazione a lunga distanza e all’intraprendenza degli armatori e dei commercianti italici (navicularii e negotiatores): uomini nuovi animati dalle straordinarie possibilità di arricchimento aperte dall’età della conquista.
L’area vesuviana gioca un ruolo di primo piano nell’enorme flusso di risorse che a partire dalla fine del III secolo a.C. invade l’Italia: famiglie di mercanti campani e pompeiani sono ben attestate nei principali snodi portuali del Mediterraneo. Da Carthago Nova (Cartagena), terminale nell’estremo
Occidente del ricco distretto minerario spagnolo, al porto franco di Delo, collettore commerciale nel cuore dell’Egeo delle sterminate masse di schiavi generate dalle guerre in Oriente. Il traffico degli schiavi finisce per ammassare in Italia un’incredibile forza-lavoro, che sarà alla base di un vero e proprio boom della produzione agraria, incentrato su un nuovo modello di villa produttiva. Anche Pompei, con le sue fertili terre vulcaniche, partecipa all’assalto dato dal vino e dell’olio italici ai nuovi mercati.
Sull’onda della nuova mobilità mediterranea e della relativa crescita economica, tra il II e il I secolo a.C. Roma e le città della Penisola mutano quindi volto, a partire dal cuore della vita urbana: il foro. Come nel centro del potere, anche a Pompei le vecchie botteghe si addensano in un nuovo spazio specializzato nel commercio alimentare, il macellum, mentre per gli affari e gli incontri la città si dota di un edificio innovativo che imita i modelli orientali: la basilica.
Più in generale è comunque una trasformazione dei consumi profonda, che incide stabilmente nella vita, nelle abitudini e sin nei gusti più minuti della società romana e pompeiana.
Obsidio – L’assedio di Pompei
La secolare alleanza fra Roma e Pompei non impedisce al centro vesuviano di investire parte delle nuove risorse per l’ammodernamento delle vecchie mura. Verso la fine del II secolo a.C. la città decide infatti di dotarsi di un sistema difensivo al passo coi tempi, aggiornato alle nuove esigenze estetiche di matrice ellenistica e in grado di reggere alle più moderne tecniche d’assedio. Monumentalizzare i propri margini significa per la città celebrare il suo nuovo status, raggiunto in quel breve lasso di tempo definito a giusto titolo il “secolo d’oro” di Pompei.
Non sappiamo invece se dietro la decisione ci fu anche il sentore di quello che stava per accadere: nel 91 a.C. scoppia infatti la Guerra sociale, il terribile conflitto fra Roma e i suoi alleati italici che di lì a poco avrebbe insanguinato il cuore della Penisola con scontri di rara ferocia. Pompei partecipa alla rivolta e ai primi del 90 a.C. viene posta sotto assedio dalle legioni di Silla, il futuro dittatore di Roma.
In questo aspro frangente della sua storia, la città vesuviana non ha mancato di restituirci uno straordinario spaccato di microstoria: nei punti nevralgici del sistema difensivo vengono infatti dipinte a caratteri cubitali le istruzioni per gli assediati (dette “eítuns”). Iscrizioni che nella loro secchezza riescono a farci rivivere gli attimi concitati di un assedio.
Sappiamo inoltre che la città subì numerosi danni, sia lungo la linea difensiva sia all’interno delle abitazioni a ridosso dei punti più battuti dalle catapulte, come testimoniano le tracce di proiettili sulle mura e le pesanti palle di pietra rinvenute in gran numero nelle case. L’assedio fu lungo e la città finì per capitolare solo alla fine dell’89 a.C. Una sconfitta che per Pompei significò di fatto la fine della sua secolare autonomia.
Luxuria – Il lusso a Roma e nelle città alleate
L’espansione militare ed economica di Roma nel Mediterraneo si riflette in una violenta trasformazione culturale, tanto nel centro del potere quanto nelle città alleate della Penisola. Gli stessi intellettuali romani individuano nel 146 a.C. la data simbolo di questo mutamento: l’anno delle distruzioni di Cartagine e Corinto viene additata come la cresta di quell’ondata di raffinato benessere che avrebbe sommerso i conquistatori, conquistandoli a loro volta con la cultura dell’ostentazione propria delle terre sottratte ai regni ellenistici, la luxuria. Modelli indiscussi di questo nuovo stile di vita le metropoli dei regni nati dalla disgregazione dell’impero di Alessandro Magno, con le loro favolose corti: Antiochia, Pergamo, Alessandria.
Ma la nuova moda diventa ben presto una questione politica, osteggiata dalle aristocrazie conservatrici di Roma e dal malcontento popolare: l’approvazione sociale del lusso è confinata alla sola dimensione pubblica (magnificentia). I generali vittoriosi fanno quindi a gara per guadagnarsi il consenso elettorale investendo gli ingenti bottini nell’abbellimento dell’Urbe e soprattutto dei suoi templi, adeguando Roma allo splendore delle metropoli orientali.
Un maggiore spazio di manovra per la nuova cultura dei pubblici svaghi (terme, teatri) e per lo sfoggio privato del lusso si ritrova invece nella provincia, per la quale Pompei offre l’esempio più noto. Nasce la villa di piacere (Villa dei Misteri), mentre alcune case dell’élite pompeiana sembrano fare a gara con le regge ellenistiche (Casa del Fauno).
Giardini porticati, terme domestiche, opere d’arte e decori preziosi: spazi per gli intimi piaceri di Afrodite e Dioniso ma anche per gli affari e gli incontri. Una luxuria, quella sperimentata tra II e I secolo a.C. in questa periferia sospesa fra il potere romano e il gusto ellenistico, a cui si deve il mito del “secolo d’oro” di Pompei.
Mos – Il ruolo e i limiti della tradizione
Al centro della mentalità e spesso del dibattito pubblico dei Romani c’era il mos maiorum, il ‘costume degli antenati’, ovvero la forza identitaria della tradizione. Nella riflessione collettiva su cosa intendere come mos, si era andata consolidando la vulgata di un passato frugale e severo, un’austerità dei costumi sempre vagheggiata come il segreto del successo romano.
Non sorprende dunque che il boom economico scatenato dalle conquiste mediterranee porti la questione del rispetto del mos all’ordine del giorno, specie nel centro del potere. Qui la fazione conservatrice, che si riconosce in figure come Catone, condannerà il nuovo stile di vita venuto dall’Oriente come luxuria asiatica, ossia come un qualcosa di profondamente estraneo a Roma.
La questione del mos fungerà così da freno al lusso privato, finendo per convogliare il grosso delle nuove risorse sull’architettura religiosa, secondo la tradizione consolidata della publica magnificentia. Non sappiamo se anche a Pompei esistesse un partito conservatore forte come a Roma.
Certo tra il II e il I secolo a.C. tanto nell’Urbe quanto nelle città alleate gli spazi sacri vengono interessati da ricostruzioni o fondazioni ex novo che vedono gareggiare i rispettivi committenti all’insegna di una marcata apertura alle novità ellenistiche.
La rinnovata centralità dei culti cittadini gioca altresì un importante ruolo di coesione sociale, contribuendo a cementare le comunità messe a dura prova dagli stravolgimenti di un mondo in rapida trasformazione. La forza del culto domestico assicura al contempo la continuità della tradizione fin nella più piccola cellula
del corpo civile.
Anche nelle ville e nelle case pompeiane maggiormente segnate dalla nuova luxuria permane alla base il culto degli antenati. Il ricordo dei defunti non risente ancora del nuovo stile di vita, come prova l’assenza in questa fase di particolari status symbol nelle più antiche necropoli di Roma e Pompei. La città dei morti mantiene così la sua forza frenante sull’invidia sociale.
Religio – Gli dei a Roma e a Pompei
Guardare agli spazi del sacro è il modo migliore per comprendere quel complesso dialogo culturale fra modello romano, ellenismo mediterraneo e tradizione locale sannitica che anima la Pompei dei decenni a cavallo tra II e I secolo a.C.
Tanto qui quanto a Roma, l’età della conquista avvia un grandioso processo di trasformazione su scala monumentale dell’originaria geografia religiosa. Nel giro di pochi anni la città vesuviana muta volto e come nel caso dei commerci lo fa a partire dal suo centro vitale: il foro. Qui gli antichi templi di Giove e Apollo vengono ricostruiti secondo il nuovo gusto di matrice ellenistica, che prevede spazi porticati impreziositi da opere d’arte di manifattura greca, secondo un modello che si va imponendo su tutt’altra scala anche nell’Urbe.
Così rinnovati, gli antichi templi della città sannitica mantengono al contempo il loro ruolo di collante sociale e garante identitario.
È questo il caso in particolare dell’area sacra attorno al Foro Triangolare, oggetto anch’essa di profonde trasformazioni alla fine del II secolo a.C. Con la crescita della città, quest’area sembra altresì rafforzare il suo tradizionale ruolo di controllo sui “riti di passaggio” all’età adulta dei giovani (uomini e donne) e dunque la sua funzione di garante della continuità generazionale e sociale. L’area del Foro Triangolare attrae inoltre in questa fase nuove divinità di origine orientale, che l’espansione mediterranea di Roma muove di riflesso verso la Penisola. Culti introdotti con i traffici dei mercanti italici e pompeiani, legati al porto della città e alle risorse del suo territorio: il mare, le fertili terre, le saline.
Alla vita economica di Pompei è specialmente connesso il tessuto sacro del territorio circostante, con i culti di Ercole, Liber, Cerere e della più nota fra le sue divinità, la Venere Pompeiana, protettrice dei naviganti e venerata anche per questo nel cuore dalla città, in un tempio affacciato verso il golfo.
Colonia civium romanorum – La fase della colonia
La fine della Guerra sociale, con la concessione della cittadinanza romana agli ex alleati, non risolve l’instabilità politica della Penisola. Nel centro del potere scoppia una feroce guerra civile fra sostenitori di Mario e sostenitori di Silla. Pompei si schiera con il partito perdente e subisce quindi la dura repressione della fazione di Silla, che nell’80 a.C. fonda una colonia di suoi veterani nella città vesuviana ribattezzata, in onore del vincitore, Cornelia Veneria Pompeianorum. La deduzione della colonia significa l’abolizione delle antiche istituzioni locali ma anche uno stravolgimento culturale, con l’imposizione ufficiale del latino al posto della lingua osca e la cancellazione delle memorie del passato.
L’istallazione di un grosso contingente di coloni è al contempo un rivolgimento socioeconomico: si tratta di migliaia di nuovi cittadini, che godono di privilegi e di un assetto patrimoniale costruito a spese delle antiche famiglie locali. Espropriazioni di fertili terre, lussuose ville e case, in cui gli ex soldati si insediano aggiornandone i decori (II Stile) e facendosi ritrarre secondo la moda in auge a Roma.
La presenza dei nuovi arrivati si coglie soprattutto dai segni di cambiamento nei luoghi della tradizione: nella riqualificazione dello spazio sacro, figlia di un nuovo patto tra la comunità e i suoi dei, e nel rinnovamento della città dei morti, ora caratterizzate dalle appariscenti tombe dei coloni più in vista.
Alla luce di questi stravolgimenti si capiscono bene le difficoltà di integrazione che travagliano i primi anni della colonia. Anche al fine di comporre queste tensioni, gli investimenti pubblici si concentrano
nei luoghi di svago e socializzazione, come le terme, il teatro coperto e l’anfiteatro. Qui in particolare si svolgevano quei giochi gladiatori tanto apprezzati sia dall’antica popolazione sannita sia dalle nuove famiglie romane, accomunate dalla passione e dall’orgoglio per il monumento simbolo della nuova Pompei.
Augustus pater patriae – Pompei e la Roma augustea
A mettere fine alla lunga instabilità della tarda repubblica è Augusto, che riorganizza il rapporto tra il centro del potere e la sua periferia su nuove basi. Nel 2 a.C. il fondatore dell’impero assume l’eccezionale titolo di “padre della patria” (pater patriae), richiamando tutti i cittadini agli ancestrali doveri che nel diritto romano legavano i figli al padre.
Il rinnovato nesso fra Roma e i suoi territori nella persona del principe si cementa allora attorno a un nuovo strumento di consenso: il culto imperiale. Chiamata come tutte le colonie a riprodurre in piccolo la madrepatria, Pompei partecipa pienamente a questo processo secondo i modelli politici dettati dal centro del potere, che prevedono l’omaggio dinastico di tutti i ceti sociali componenti il rigido sistema per classi che caratterizza la società romana.
La restaurazione dei costumi imposta da Augusto si presenta agli occhi dei cittadini dell’impero attraverso una nuova arte per un nuovo potere. A Pompei come a Roma il linguaggio artistico augusteo è caratterizzato dal rigore classicistico, che penetra fin negli spazi della vita privata con un nuovo gusto decorativo (III Stile).
Ad assicurare l’attuazione del programma augusteo in centri periferici come Pompei è l’aristocrazia locale (domi nobiles), via via stabilizzatasi dopo la nascita della colonia sull’esempio della nobiltà romana. Una élite composita il cui patrimonio, fondato sulle ricche proprietà agricole del territorio, è speso in gran parte con funzione sociale nella realizzazione di grandi feste per la cittadinanza e di svariati monumenti (evergetismo).
La classe dirigente di Pompei fatica a staccarsi dalle splendide ville affacciate sul golfo e, a differenza dei parigrado italici, non riuscirà ad accedere al senato di Roma. Come nel resto d’Italia invece, dopo la morte di Augusto anche nella città vesuviana inizierà ad affacciarsi sulla scena pubblica una classe di nuovi ricchi dalle umili origini (liberti).
Terrae motus – Il terremoto del 62/63 d.C.
Non tutti sanno che l’immagine di Pompei consegnata alla storia dal Vesuvio è quella di una città faticosamente impegnata a risollevarsi da un violento terremoto.
Il 5 febbraio di un anno imprecisato del regno di Nerone (62 o 63 d.C.) Pompei è sconvolta da un sisma tanto violento da svellere le statue del foro e inghiottire un intero gregge di seicento pecore (stando almeno a quanto ci dice Seneca). Nessun edificio ne esce indenne; la stessa ricostruzione sarà travagliata da un lungo sciame sismico e si protrarrà fino all’eruzione del 79 d.C. È possibile immaginare le prime risposte al disastro, anche alla luce di quanto ancora oggi avviene purtroppo nelle tante aree terremotate della Penisola. Una sorta di commissario imperiale viene inviato sul luogo, per coordinare i magistrati locali nelle operazioni di smaltimento delle macerie. La viabilità è riorganizzata sulla base delle esigenze di smistamento dei cumuli di detriti, che ancora oggi si rinvengono fuori dall’abitato o nelle aree meno edificate.
Solo dopo questa fase di certo lunga e complessa si poté avviare la messa in sicurezza e la ristrutturazione, forse non prima del regno di Vespasiano (69-79 d.C.).
I tanti cantieri dovettero attrarre da fuori moltissima manodopera, alle cui esigenze è probabile che si leghi lo spropositato numero di luoghi per il ristoro (cauponae, thermopolia), il soggiorno (hospitia) e lo svago (lupanaria) che contraddistinguono la Pompei oggi nota ai più.
Sembra che la classe dirigente locale abbia fatto fatica a sostenere i restauri di tutti gli edifici pubblici; a parte il foro, è comunque certo che si lavorasse ancora in svariati contesti al momento dell’eruzione. Gli interventi dovettero procedere in ordine sparso, mancando a Pompei quella pianificazione su larga scala che solo il potere imperiale poteva ormai assicurare, come nel caso del coevo incendio di Roma.
Eruptio – L’eruzione del 79 d.C. e la fine di Pompei
Il terremoto del 62/63 d.C. colse Pompei in una fase di evidente declino socioeconomico, aggravandone la situazione. Alla vigilia del sisma d’altronde una celebre rissa, scoppiata nell’area dell’anfiteatro cittadino fra gli abitanti di Pompei e quelli della vicina Nocera, ne aveva già palesato tutto il malessere sociale.
Nei diciassette anni che separano il terremoto dall’eruzione del 79 d.C. la città è sottoposta all’ulteriore test da sforzo di una ricostruzione continua e a macchia di leopardo. Tra le molte tracce di una progressiva crisi un unico, vistoso segnale in controtendenza: la realizzazione di un nuovo impianto per il pubblico svago, le Terme Centrali, ancora in costruzione al momento della definitiva distruzione.
Ma al di là delle calamità naturali, le difficoltà palesate dalla classe dirigente di Pompei nel far fronte alla ricostruzione riflettono una situazione comune a molti centri italici, duramente colpiti da una crisi economica legata alla crescita dei mercati provinciali, a scapito delle produzioni agricole della Penisola.
La parabola discendente delle aristocrazie locali incrocia l’apice dell’ascesa del ceto libertino, portatore di una cultura figurativa più diretta e alternativa al linguaggio aulico (la cosiddetta “arte plebea”), che trova largo spazio nell’ultima fase della vita di Pompei.
Un gusto per l’appariscente e il triviale apparenta queste manifestazioni con la moda imperante fra le élite nei decenni centrali del I secolo d.C. A distinguere la committenza più alta è soprattutto la predilezione per materiali preziosi e marmi colorati, sull’esempio dei palazzi imperiali. Un livello che a Pompei scarseggia, a differenza delle più economiche soluzioni ad affresco (IV Stile). Mentre la Roma imperiale è impegnata a sfidare il tempo con le realizzazioni di una metropoli senza precedenti (a partire dall’edificio che ospita questa mostra), la piccola Pompei troverà nell’ambivalente caso di una distruzione conservativa la via per passare alla storia.