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Pompei News

Case senza atrio a Pompei: un evoluzione architettonica e sociale

Photo: Parco Archeologico di Pompei - Casa IX 12, B. Quadro con raffigurazione di Ippolito e Fedra

Il modello tradizionale della casa romana, con il suo atrio centrale, ha subito un'evoluzione significativa a Pompei nel 79 d.C. Mentre la mancanza di spazio spiega l'assenza dell'atrio in abitazioni modeste, un numero considerevole di case di un certo livello, decorate con pitture e arredi di pregio, hanno scelto di rinunciare all'atrio pur avendo lo spazio sufficiente per costruirlo.

La Battaglia di Isso
Naples National Archaeological Museum, Public domain, via Wikimedia Commons

L'arte del mosaico divenne una delle più caratteristiche e fortunate del mondo romano. I mosaici fatti con piccole tessere di eguale dimensione ricavate da pietre e da marmi colorati (opus tessellatum), e disposte in un letto di cemento divennero gradualmente noti al mondo greco nei decenni seguenti le conquiste di Alessandro. Probabilmente si trattava di un'idea importata dall'oriente, sebbene sia stata suggerita un'origine siciliana.

Il concetto fondamentale era reminiscente dei tessuti: in altre parole, il mosaico, o almeno le sua parte pittorica, era pensato come una specie di tappeto inserito nel mezzo del pavimento, e il nome che si dava a tale pannello centrale era quello di emblema. Oppure poteva essere trattato a mo' di stuoia da collocare davanti a una porta.
A Pompei il pavimento fu veduto come uno spazio unitario che avrebbe dovuto essere interamente coperto dal mosaico, il quale così sarebbe sembrato un tappeto anziché uno stuoino. Tale formula è in modo particolare riscontrabile negli atri delle grandi case sannitiche costruite a Pompei e a Ercolano nel II secolo a.C.

Ma la città di Pompei fornisce anche un certo numero di notevoli esempi dell'antica tecnica greca del "tappetino": cioè dei mosaici inseriti al centro del pavimento e formanti dei quadri, con disegni non soltanto decorativi. Talvolta gli scenari potevano essere molto grandi, come dimostra il più famoso di tutti, quello che rappresenta la battaglia di Isso (333 a.C.) combattuta fra Alessandro Magno e i Persiani di Dario In, che misura m 3,20 x m 5,50. Risalente al 150 a.C. circa, il mosaico fu scoperto nella Casa del Fauno di Pompei e attualmente è conservato nel Museo di Napoli. Insieme con il più recente e puramente decorativo mosaico del Nilo di Palestrina (la vecchia Praeneste), esso costituisce il più splendido esemplare dell'arte musiva che sia giunto fino a noi e rivela la straordinaria potenzialità del mezzo (anche se sarebbe alquanto scomodo dover guardare dall'alto in basso una composizione così complessa realizzata su un pavimento). Con tutta probabilità la scena guerresca si ispirava molto da vicino a qualche quadro greco dipinto subito dopo la battaglia di Isso, o almeno prima della fine del IV secolo a.C. Può darsi anche che l'autore fosse un certo Filosseno di Eretria; in ogni caso il mosaico, anche se preannuncia alcune idee prospettiche di epoca posteriore, ci fa intuire meglio di qualsiasi altra cosa quello che doveva essere un grande dipinto murale greco. Filosseno era noto per i suoi "scorci" illustrati nel mosaico in questione dalle figure seminascoste. La composizione è elaborata, ma brillantemente lucida e drammatica, con vedute audaci e una sapiente illuminazione. I grandi capolavori musivi del genere erano presumibilmente realizzati sul posto da esperti greci di importazione (tranne il caso, forse, che nella città di Neapolis fosse possibile reperire uno o due artigiani capaci di sollevarsi a tali altezze). La grandiosità della scena, tra l'altro, I'ha fatta paragonare al quadro della Resa di Breda del Velasquez; ma l'aerea prospettiva del capolavoro seicentesco manca nell'antico mosaico, in cui tutto sembra trovarsi in primo piano .
Anche in opere importanti come il mosaico di Alessandro spesso le tessere non sono disposte in linee rette, ma variano di direzione, come anche di dimensione, secondo le necessità dell'artista. Altri pannelli più piccoli portano ancora più avanti tali variazioni consentendo di ottenere risultati molto più delicati (simili a quelli che solo un pittore potrebbe raggiungere) mediante l'uso di tasselli delle forme più varie (ma generalmente rotondi) e delle dimensioni più diverse (spesso molto piccole), sistemati su serie di curve sinuose. Due piccole composizioni musive in cui fu impiegata tale tecnica "vermicolare" (opus vermiculatum) sono state scoperte in una casa di campagna fuori Pompei (erroneamente chiamata Casa di Cicerone) e attualmente sono conservate nel Museo di Napoli. Esse portano la firma di un certo Dioscoride di Samo, e una delle due rappresenta un gruppo di musici ambulanti accompagnati da un fanciullo dal viso smunto e malaticcio. L'altra, invece, raffigura una vecchia fattucchiera mascherata nell'atto di dare a due giovani donne dei consigli o dei filtri d'amore; tutte tengono le mani molto strette. Dioscoride vi lavorò intorno al 100 a.C., ma le opere sono adattamenti di pitture del 280 circa, che rappresentavano scene della Commedia Nuova di Menandro: i musici si incontrano nella commedia di quest'ultimo intitolata Theophoroumene (La donna invasata), mentre le donne appartengono alle Synaristosae (Le donne che fanno colazione).
Questi pannelli, in cui le strisce sovrapponentesi di colore nero, grigio e giallo costituiscono un tentativo di ricerca di profondità spaziale, sono montati in scomparti di marmo, per cui dovevano essere stati prefabbricati, e questo fa supporre c he fossero stati importati già pronti, forse dall'Oriente greco. Gli artefici di opere come queste probabilmente avevano dei libri contenenti modelli a cui ispirarsi; ma di che libri si trattasse e come venissero usati non possiamo dirlo. In un altro pannello si vedono dei piccioni appollaiati su una tazza: tema ben noto e già incontrato nelle pitture, che era stato iniziato, secondo quanto ci viene detto, da un certo Soso di Pergamo, il quale era famoso anche per aver dipinto il pavimento sporco di una stanza da pranzo, successivamente riprodotto in numerosi mosaici. Un esemplare, conservato al Vaticano, porta la firma di un certo Eraclito, il che significa che in quel caso la persona che appose il proprio nome non era evidentemente il pittore originale (che era Soso), ma l'artefice del mosaico. Sebbene i residui di cibo sparsi sul pavimento ricordino troppo le abitudini della gente del tempo per avere un sapore gradevole, essi forse rendono meglio l'idea estetica di quello che dovrebbe essere un disegno sul pavimento che non le grandi composizioni figurative. Ancora più soddisfacenti, dal punto di vista decorativo, sono le scene di vita marina destinate alle case e alle terme. Un esempio eccellente di questo genere è quello in cui si vede il combattimento fra un polpo e un'aragosta, mentre una murena sta in agguato pronta ad attaccare e altri pesci girano intorno.

Conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Museo archeologico nazionale di Napoli, Public domain, da Wikimedia Commons

Eppure uno dei più interessanti fra i piccoli mosaici da pavimento pompeiani si allontana dal concetto della composizione musiva intesa come decorazione. Originariamente sistemato al centro del pavimento di una stanza da letto, questo mosaico ha per soggetto un ritratto muliebre che Antony Thorne ha definito come quello di «una donna tormentata, con occhi grandi, non bella, sul punto di dire qualcosa a bassa voce». La testa assomiglia notevolmente ai primi ritratti della grande serie di dipinti che decoravano le mummie del Fayum e di altre località dell' Egitto, e che, per quanto ne possiamo sapere, stavano appena per iniziare la loro lunga storia proprio quando Pompei ed Ercolano terminavano la propria. Può darsi che i primi ritratti egizi, che noi non conosciamo, abbiano avuto un'influenza su quest'opera pompeiana, proprio come tante altre mode che nell'antichità arrivarono in Campania dall'Egitto. Può anche essere che il mosaico sia stato direttamente importato dall'Egitto già bell'e fatto (o che ne sia stato almeno fatto venire il disegno su cui si basa); oppure, in alternativa, questo tipo di ritrattistica potrebbe non aver avuto origine né in Egitto, né nella Campania, ma in qualche scuola d'arte di un'altra regione di cui non siamo a conoscenza. L'opera è ricca di sfumature e di luminosità. Agli inizi dell'impero bizantino, quattro o cinque secoli dopo la distruzione delle città vesuviane, una delle maggiori forme d'arte del mondo doveva evolversi dall'idea di trasferire il mosaico dal pavimento alla volta muraria o alla parete. In effetti il trasferimento aveva già avuto inizio a Pompei e a Ercolano, ma senza dubbio anche altrove, sebbene sia su quelle due località, come spesso avviene, che dobbiamo basarci per sapere quasi tutto quel che accadeva nel mondo greco-romano. Così i mosaici da parete possono essere veduti nelle nicchie che ornavano le fontane dei giardini delle case private; essi erano fatti con cubetti di marmo o di pasta di vetro, spesso incorniciati da fasce di conchiglie di mare. I disegni per lo più erano geometrici, con piccole scene figurate introdotte in certi punti. Composizioni del genere, come, per esempio, quelle delle Case della Fontana Grande e della Fontana Piccola di Pompei, al sole d'estate devono aver prodotto suggestivi giochi di luce. La casa del Mosaico di Nettuno, a Ercolano, vanta una grotta con tre nicchie, o nymphaeum, particolarmente elaborata e interamente rivestita con mosaici multicolori di scene di caccia: in questo caso le figure sono tracciate contro uno sfondo azzurro. Nella medesima corte, ad angolo retto con la grotta, si vede un esempio molto più ambizioso di utilizzazione dello stesso materiale, cioè un grande pannello murale raffigurante Nettuno con la moglie Salacia (Amphitrite). L'esecuzione è fatta con tratto naturalistico e l'ombreggiatura crea l'illusione di una pittura mentre la parte periferica del pannello forma una cornice policroma e fastosamente ornamentale che contrasta piacevolmente con il convenzionalismo accademico delle figure.
I mosaici e i dipinti parietali non solo facevano il servizio oggi svolto dai tappeti e dai quadri appesi ai muri, ma il loro inserimento nella struttura generale dell'edificio era basato sulla supposizione che i mobili dovevano essere pochi.

 

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